| |
|
//di Francesco Cataldo Verrina //
Creed
Taylor è stato un personaggio chiave nella storia del jazz
moderno: inventore della Impulse Records, dove preparò l'ascesa
del suo successore Bob Thiele portando Coltrane nel roster di
quell’etichetta; uomo di punta per il rilancio della Verve, ma
soprattutto
refugium peccatorum
con la sua CTI di tanti artisti importanti negli anni Sessanta,
ma senza più contratto o una fissa dimora nel decennio
successivo. Per lungo tempo la CTI fu un’etichetta che
accoglieva jazzisti provenienti da varie esperienze e lo stesso
Creed Taylor a volte creava delle
combine
sul filo di un equilibrio apparentemente instabile e stridente
ma che, alla prova dei fatti, funzionava quasi sempre in termini
commerciali. Creed univa musicisti di estrazione
latino-brasiliana, ex-fenomeni del bop, spaesati rappresentati
della West Coast, bianchi, neri, outsider e crooner in un
melting-pot sonoro che a volte sfiorava l’easy listening, per
altri versi puntava su complessità orchestrali dalle ambizioni
improbabili. Uno dei tratti salienti del Taylor, produttore
esecutivo e discografico, era sempre stato il fiuto per per
quelle situazioni che potessero incontrare i favori di un ampio
pubblico, sovente collaterale e limitrofo al jazz.
Il sodalizio tra la CTI e
Randy Weston, afro-americano di origine giamaicana, compositore
intellettuale ed impegnato sul fronte del terzomondismo, non era
affatto scontato, eppure Creed Taylor riuscì a confezionare un
album raffinato e fruibile, sia pur complesso nelle partiture,
tanto da farne l’opera di Weston più riuscita in in termini di
mercato. Il pianista non fu molto soddisfatto del risultato
finale: il disco era assai distante dal suo standard, troppo
curato e soprattutto lontano da quelle che aerano le intenzioni
iniziali. Weston aveva sempre lavorato con la mentalità di un
artista underground, mentre la CTI operava con la mentalità di
una casa discografica generalista e mainstream. A conti fatti,
ed ex-post, oggi possiamo tranquillamente affermare che «Blue
Moses», però, giovò ad entrambe le controparti. Weston beneficiò
delle attenzioni di un pubblico più vasto e la CTI riuscì ad
alzare l’asticella qualitativa delle sue produzioni.
Da decenni oggetto di culto, «Blue
Moses», considerato da molti il più insolito tra gli album di
Weston, nel corso dei decenni, ha finito per diventare un cult.
Sulla carta, la fusione tra l’estetica della musica magrebina,
sostenuta dagli aneliti africanisti del dilagante
free-ethno-jazz ed oggetto di studio e di interesse del pianista
in quel periodo, e la raffinatezza tipica del sound di Creed
Taylor destinato agli attici del Rockfeller Plaza di Manhattan,
avrebbe potuto diventare una miscela stridente e forzata.
Nonostante l’apparente ridondanza di un ensemble di venti
elementi con un’elevata densità di ottoni, Taylor e Weston
riuscirono nell’impresa. Si potrebbe dire che gli opposti, a
volte, si attraggono, ma ci sono circostante favorevole che
depongono fortuitamente a favore dei protagonisti di un progetto
che si trovano coinvolti in qualcosa di più grande di quanto non
fosse stato prefissato in partenza.
Taylor, di certo non badò a
spese. Randy Weston, che suonò il pianoforte ed il piano Rhodes,
fu supportato supportato da una band all-stars che includeva i
migliori cavalli di razza della scuderia CTI: il trombettista
Freddie Hubbard (accolto in casa Taylor dopo i fast Blue Note e
qualche passo falso), il sassofonista tenore Grover Washington
Jr, i flautisti Hubert Laws e Romeo Penque, il batterista Billy
Cobham, in alternanza i bassisti Ron Carter e Bill Wood ed i
percussionisti Phil Kraus, Airto Moreira e il figlio di Weston,
Azzedin. Il gruppo base fu accompagnato da una potente sezione
fiati diretta da Don Sebesky, il quale ne curò anche gli
arrangiamenti: John Frosk tromba e flicorno; Alan Rubin tromba e
flicorno; Marvin Stamm tromba e flicorno; James Buffington corno
francese; Brooks Tillotson corno francese; Wayne Andre trombone,
corno e baritono; Garnett Brown trombone; Warren Covington
trombone; Paul Faulise trombone basso e Madame Meddah voce.
Registrato nel 1972 al Rudy
VanGelder Studio, «Black Moses» è un concept libero, basato
sulle tipiche istanze della corrente terzomondista del free jazz
e strutturato su quattro lunghe composizioni ispirate alla
musica
ganawa
del Marocco. In quegli anni l’approccio di Weston si era evoluto
rispetto allo stile hard bop, molto influenzato da Thelonious
Monk. La sua tavolozza ritmico-armonica si era allargata
riflettendo la fascinazione per la musica africana. Tracce del
Monaco, tuttavia, rimasero sempre presenti nello stile esecutivo
di Weston come impronte digitali indelebili. «Thelonious
era il più originale che avessi mai sentito»,
diceva Weston. «Suonava
come avrebbero suonato in Egitto cinquemila anni fa».
Il pianista aveva imparato a
conoscere ed apprezzare la musica africana in loco. A metà degli
anni Sessanta, grazie alle royalties guadagnate con composizioni
piuttosto apprezzate come «Hi-Fly» e «Saucer Eyes», abbandonò
gli Stati Uniti per viaggiare a lungo nell’Africa settentrionale
e occidentale. Nel 1968 si stabilì a Rabat dove per quattro anni
gestì un club. «Blue Moses» fu realizzato alla fine del
soggiorno nella capitale del Marocco, quando il pianista aveva
acquisito una profonda conoscenza degli stilemi magrebini e in
particolare della
gnawa
marocchina, una musica percussiva e ritualistica, praticata
durante le dance apotropaiche e diffusa dai musicisti neri
africani provenienti dell’estremo Sud del Paese. L’album suona
come la colonna sonora cinematografica di un vivace carnevale,
dove le sezioni fiati sono utilizzate per riprodurre il tema,
mentre i vari solisti aggiungono un tocco individuale.
Il microsolco si apre con «Ifrane»
che Weston aveva registrato per la prima volta nel 1965 in trio,
pianoforte, basso e batteria, e mai pubblicato fino al 1977,
quando l’Arista Records lo diede alle stampe con la
denominazione di «Berkshire Blues». «Ifrane» ha un suono da big
band, intenso e vivace, che fa pensare a Bacharach in modalità
jazz, alla band di Stan Kenton degli anni Settanta o ad commento
da film alla Henry Mancini. L’audace tromba, tagliente e
staccata, che svetta su ogni altro strumento, è quella di
Freddie Hubbard, sostenuta dell’esuberante batteria di Bill
Cobham. La registrazione è solida come una roccia e la musica
ribollente.
«A Night In Medina», ricamato
dai fiati timidi e spettrali, è un pezzo labirintico e astratto,
il quale irradia un’apparente calma che, come in una spy story,
maschera loschi traffici ed imminenti agguati in un’oscura città
del deserto, con un plot narrativo carico di atmosfere esotiche
ed arabesche, colorato nell’arrangiamento e corroborato
dall’interazione tra le armonie di Weston ed il sassofono
soulful di Washington, mentre le percussioni creano un groove
sospeso e spirituale. Come dice la nota di copertina scritta da
Weston: è una composizione che «esprime
la mia sensazione di pace, ma una pace tinta di apprensione,
durante una passeggiata alle tre del mattino nelle tortuose
strade della Medina, la città vecchia, a Rabat, in una notte di
luna piena».
L’altro brano esteso
dell’album, «Marrakesh Blues» della durata di dodici e diciotto
minuti, è basato su un’esecuzione densa, respirante, intima e
ossessionante, dove il pianista concede molto spazio a Freddie
Hubbard e Grover Washington. Suddetti componimenti erano stati
inclusi in «African Cookbook» (Polydor, 1969), realizzato con il
bassista Henry Texier, il batterista Art Taylor e i
percussionisti Azzedin Niles Weston e Reebop Kwaku Baah,
entrambi conoscitori della sintassi afro-centrica. «Ganawa (Blue
Moses)» della durata di oltre tredici minuti è l’apoteosi dello
gnawa, caratterizzato dai tamburi che dondolano in un groove
tipicamente africano. Le tastiere elettriche di Weston, morbide
e rotolanti, danno forma alla struttura, mentre il flauto di
Hubert Laws si intreccia con il morbido e rapido svolazzare
delle percussioni.
Nella conclusiva «Marrakesh
Blues», Weston si concentra essenzialmente su coloriture ricche
di atmosfera attraverso ripetuti assoli di piano elettrico
puntellati da uno sferragliare di percussioni, tromboni bassi
simili a djinn e grida ultraterrene magnificate dai cori di
Madame Meddah, da linee di tromba e flauto gemellate ed affini e
da una profondo walking di basso che passeggia con disinvoltura
all’interno del costrutto armonico. Il brano inizia con la voce
di Madame Meddah, la quale evoca il Nord Africa prima che il
flauto modellante di Laws e il basso virile ma aggraziato di Ron
Carter preparino il terreno per Randy Weston, il cui piano
elettrico diventa lirico e brunito. La batteria di Cobham cambia
il mood ed il ritmo attraverso un’andatura modernista mentre il
band-leader squaderna frasi imperative e circolari. Il sax di
Washington è moderatamente fluttuante e ammiccante come una
danza del ventre. Al netto di ogni dietrologia o speculazione
letteraria, in «Blue Moses» il dualismo Africa/America è
perfettamente in asse, soprattutto l’ambientazione e le sonorità
del Continente Nero non risultano mai artificiose e surrettizie,
sia pur narrate attraverso moderne regole d’ingaggio tipiche
degli anni Settanta.
|
|
|